Il potere nutritivo della fermentazione

Far fermentare un alimento significa cambiarlo profondamente sia dal punto di vista nutrizionale che da quello del valore e del portato energetico. La fermentazione del cibo è un processo che ha bisogno di cure, di tempo e di sapienza.

Etimologicamente parlando, il verbo fermentare proviene dal latino fervere, che significa ribollire. In questo senso possiamo intendere le fermentazioni come un processo naturale di trasformazione della struttura organolettica di un alimento innescato a livello biochimico da particolari batteri, lieviti e muffe. Anticamente la fermentazione era uno dei principali metodi di conservazione nel tempo delle proprietà nutritive del cibo. I nostri antenati non disponevano di celle frigorifere e dovevano rispettare il ciclo stagionale del raccolto per consumarlo, trasformarlo, e, così, conservarlo fino alla stagione successiva. Fermentare un cibo, quindi, all’epoca era spesso una scelta necessaria e dobbiamo ringraziare i nostri avi dei segreti e dell’esperienza che ci hanno tramandato.

Soprattutto in Oriente, le fermentazioni sono da sempre parte integrante della dieta dei popoli e delle loro tradizioni culinarie. In Occidente si rileva una cultura della fermentazione meno importante, ma negli ultimi tempi si è riscoperto il grande potere nutritivo, il gusto intenso e particolare e la consistenza inaspettata di molti ortaggi e frutti fermentati. Dal punto di vista chimico questa trasformazione avviene in ambiente privo di ossigeno a livello cellulare ad opera degli zuccheri contenuti negli alimenti, soprattutto nei carboidrati. All’interno della cellula in condizioni anaerobiche viene generata energia grazie al processo di glicolisi. La glicolisi promuove una serie di reazioni chimiche mediante le quali il glucosio viene ossidato a formare un complesso molecolare chiamato ATP, che può essere inteso come la “corrente elettrica” della cellula, capace di produrre una grande quantità di energia libera utile a dare avvio a nuovi e complessi sistemi vitali.

Di fermentazioni ne esistono diversi tipi. Tra le più importanti tipologie usate in ambiente gastronomico troviamo quella omolattica e quella alcolica. Nella fermentazione omolattica la glicolisi dà origine all’acido lattico (che nulla ha a che fare coi latticini, come potrebbe erroneamente suggerire il termine). Nella fermentazione alcolica, invece, si genera etanolo, come nei casi di produzione di vino e birra.

Si parla di acido lattico anche in riferimento allo sforzo intensivo durante l’esercizio fisico. In questo caso si tratta di un processo di rigenerazione muscolare in ambiente privo di ossigeno ad opera del fenomeno della glicolisi. Il comune denominatore di tutti i tipi di fermentazione è la carica batterica che li innesca. Infatti si parla di probiotici (dal greco pro-bios, a favore della vita) per identificare quei microrganismi che avviano la trasformazione del cibo, conferendo ad esso nuove qualità, a beneficio dell’organismo, in particolare dell’ecosistema intestinale. I probiotici, infatti, sono molto utili per riequilibrare e rinforzare il microbiota e si trovano in numerosi alimenti e integratori. È buona abitudine consumare alimenti fermentati proprio per rinvigorire la flora batterica intestinale, e, quindi, il nostro intero sistema immunitario. Esistono molti ceppi di batteri differenti che lavorano per la fermentazione del cibo, ma l’importante è creare una selezione di batteri “buoni” che concorrano a ottenere il risultato voluto, onde evitare che l’alimento si decomponga e non sia più commestibile.

Nel caso della fermentazione lattica, i batteri coinvolti sono lo Streptococcus e il Lactobacillus. In quella alcolica si tratta del ceppo Saccharomyces  e più precisamente dello S. Cerevisiae, presente naturalmente sulla buccia degli acini d’uva e nel lievito di birra. Ogni alimento viene a contatto con una moltitudine di microrganismi differenti nel percorso dalla terra alla tavola. Alcune fermentazioni nascono spontaneamente a partire dai batteri già presenti, mentre altre si avviano con appositi starter, reperibili in commercio online o nei market biologici.

È il caso degli starter per kefir, pane fatto in casa, formaggi, vino, birra artigianale, kombucha per citarne alcuni.

Per avviare il processo di fermentazione è necessario disporre di barattoli di vetro puliti in cui riporre l’alimento e assicurarsi di lasciarlo fermentare a una temperatura compresa fra i 10° e i 25° C. Nella stagione fredda il processo sarà più lento rispetto al periodo estivo, poiché le basse temperature generalmente rallentano la trasformazione batterica del cibo. Per alcuni alimenti occorre realizzare una salamoia con acqua e sale (quest’ultimo circa il 2,5% del totale), con la quale ricoprirli nel recipiente, mentre altri si cospargono di sale per far spurgare il loro liquido organico, che servirà da “brodo” per una corretta fermentazione. Mentre si aspetta il tempo previsto (variabile in base al tipo di alimento, al gusto che si vuole ottenere, al grado alcolico che si cerca, etc.) bisogna monitorare l’andamento della trasformazione e assicurarsi che non si sviluppino nel vaso di vetro a contatto col cibo batteri indesiderati che mandano in malora l’intera fermentazione. Talvolta sulla superficie della salamoia compare un sottile strato bianco: sarà sufficiente rimuoverlo delicatamente con un cucchiaio per mantenere la preparazione in buone condizioni.

· Stella Colonna